L'abbazia perduta
Breve storia del monastero di San Benedetto di Gualdo
di Matteo Bebi
pp. 180, € 18,00
Era Nuova, 2020
ISBN: 978-88-6662-150-8
Anno 1008, tra le fronde d'una piana boscosa avvolta dalle nebbie sorge un'abbazia. Siamo ai piedi dell'Appennino, nell'Umbria orientale. Le maestose montagne guardano la folla che si sta radunando attorno a dei nobiluomini, ai rintocchi d'una campana. Sarà in quel giorno che nascerà l'abbazia di San Benedetto, in una località chiamata Gualdo.
Può sembrare quasi l'incipit d'un romanzo e anche se il libro è frutto del lavoro preparatorio, e di studio, che c'è stato per la realizzazione di "Poi si fece buio", precedente opera incentrata su di una leggenda appenninica, che narra d'una strega, chiamata "Bastola", che incendiò il villaggio di Gualdo, è in realtà una celebrazione saggistica, tramite la ricerca minuziosa delle fonti, della nascita di una famosa e potente Abbazia, che decretò anche l'alba d'un borgo umbro e il nome della stessa città, oggi Gualdo Tadino.
L'omaggio quindi a un luogo troppo spesso dimenticato, e oggi abbandonato, che vide il sorgere d'un monastero proprio dopo la celebre "battaglia di Tagina", dove il generale bizantino Narsete si scontrò con Totila, appena acclamato Re degli Ostrogoti. Attorno al cenobio si andò quindi formando un villaggio con i suoi primi rappresentanti; le genti prima disperse e lì accolte iniziarono a sentire quel luogo come casa, e a chiamarlo Gualdo, dalla latinizzazione del nome germanico del terreno, "wald", stante per bosco. L'Umbria infatti, soprattutto in questi anfratti montuosi, è ancor oggi ricca di selve, e all'epoca dovevano essere interrotte solamente da un lungo "serpente": la via Flaminia.
La ricostruzione delle vicende spazia dunque dall'Italia funestata dalle Guerre Greco-Gotiche, prendendo spunto dagli scritti di Procopio e di papa Gregorio Magno, fino alla venuta di Federico Barbarossa e di suo nipote, lo Stupor Mundi, Federico II, e quindi al 1256, anno del trasferimento del capitolo dei monaci nell'attuale sito ove sorge la Cattedrale.
Cercando di individuare un periodo di fondazione dell'abbazia, nonché mostrando come l'Umbria, regione montana e collinare che può apparire quasi fuori dai "giochi di potere", fosse in realtà al centro dei grandi accadimenti che funestarono la Penisola, ci addentriamo pienamente in quel nascente sistema feudale che si portarono dietro i dominatori di quegli anni: i longobardi, che diedero vita alla dinastia folignate dei Trinci.
Tra misteriosi castellacci, tra stralci di documenti originali e di seconda mano, tra battaglie e potenti personaggi ancora ben piantati nel nostro immaginario, "L'abbazia perduta" vuole sì raccontare l'alba dell'identità d'un paese, ma in generale indaga i movimenti politici del centro Italia a cavallo tra la caduta silenziosa dell'impero romano e l'avvento d'un medioevo non pienamente percepito.
L’abbazia di San Benedetto «vecchia» fu almeno per duecento anni, come dimostra Bebi nel suo libro, il nucleo di conservazione e trasmissione della civiltà gualdese, dalla devastazione di un medioevo ancora mezzo pagano fino al solidificarsi di poteri più o meno legittimi e fra loro concorrenziali: il papa, l’imperatore, i signorotti feudali, le città. L’abbazia dimenticata fu molto più che un luogo di meditazione attorniato da qualche casupola di contadini in cerca di riparo dalla spada, dalla rapina e dalla miseria. Essa fu il nodo organizzato, attivo e potente di un’altra Gualdo, quella che precedette la città della Val di Gorgo, celebre, alla fine, solo, o quasi, per il modo pirotecnico in cui, nel 1237, finì.
Bebi racconta, appoggiandosi su documenti e su ipotesi ragionevoli, come Gualdo Tadino sia stata un microcosmo delle vicende fondamentali di un medioevo centrale molto complesso: l’epoca in cui cominciarono le crociate, in cui i poteri universali si fronteggiarono senza scrupoli per via delle investiture dei vescovi, in cui la riforma di Cluny organizzò un enorme potere abbaziale, in cui avventurieri e signorotti feudali cercarono di accaparrarsi insieme alle terre anche il favore di Dio “pro redemptione animae”. Un mondo, insomma, non tanto distante dalla brutalità del Magnificat di Pupi Avati: austero, pieno di simboli, di lotte sotterranee, di potenze in armi.
L’Abbazia perduta svela qualche enigma etimologico (perchè Madonna delle Rote?, per dirne una), fa ipotesi ardite, come quella su San Martino, che contenderebbe il posto di “unico, originale, gualdese” a San Facondino (sebbene gli specialisti di agiografia abbiano molti dubbi anche su quest’ultimo: ma non diciamolo troppo in giro).
A ben vedere, il libro di Matteo Bebi dimostra che Gualdo Tadino, per paradosso, ha avuto la sua unicità e originalità (gualdesità è un concetto vago, buono per ogni declinazione, a parte la saldezza del dialetto che parla noi, più che noi parlare lui) nella contaminazione, nel sovrapporsi di lingue, culture, usi, culti. La sua forza è stata l’adattamento a quel “banco del macellaio”, per dirla con Hegel, che è la storia. Il lettore in cerca di una buona compagnia serale, magari alternativa al web, la può trovare nell’Abbazia perduta: l’autunno gualdese favorisce certe suggestioni da Nome della rosa. Alla fine, darà ragione a Marc Bloch: la buona storia diverte e spinge a capire. Molto oltre il medioevo."
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